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                     “Un Fiume…di vino e di birra”
Vini naturali, biologici e Birre artigianali d’eccellenza.
Cibo da salvare, Libri.

Da sempre sulle nostre tavole il vino è l’ideale accompagnamento del pasto ma anche le birre artigianali possono accompagnare non solo la pizza, il cibo di strada, gli aperitivi ma anche pranzi e cene.“A Piazzetta” offre un viaggio nei sapori e nelle vie del gusto alla scoperta del vino calabrese e delle birre artigianali che hanno ottenuto riconoscimenti da Slow wine e dalla Guida alle Birre Slow Food 2015.

Nella nostra carta troverete in particolare Vini regionali provenienti da agricoltura biologica e da piccoli produttori che rispettano l’ambiente. Il loro lavoro rappresenta il territorio e racconta di come si possono applicare i concetti del biologico nel vigneto, nel terreno e in cantina. Nel Sud si stanno diffondendo sia nel mondo del vino sia nel mondo della birra prodotti di maggior carattere, sempre più legati al territorio, grazie ad un uso crescente delle materie prime autoctone e identitarie.

Il Vino di Calabria
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Il mondo del vino è complicato e schiacciato dal peso dell’industria e del mercato, con una legislazione europea abbastanza permissiva sull’etichettatura vino biologico rispetto alla produzione industriale. Bisogna aiutare il consumatore a orientarsi sul vino da coltura biologica e con il più basso contenuto di solfiti e non tradire i sapori della terra e di una agricoltura che vuole e deve restare popolare, buona per l’ambiente e buona per la salute. Anche in Calabria ci sono i piccoli difensori della biodiversità che praticano una filosofia, quella dell’artigianato vinicolo, che significa legame con il territorio, con raccolta e imbottigliamento da parte dello stesso produttore, bando ai trattamenti chimici in vigna e uso limitato allo stretto indispensabile degli additivi chimici. 

Da secoli gli ulivi, gli agrumi e le viti rappresentano le risorse fondamentali della Calabria, una terra fertile e generosa dove i vini hanno una storia antichissima. I Greci portarono, infatti, nella zona vitigni preziosi la cui eredità sopravvive ancora oggi. Ecco spiegata, così, la denominazione di “Enotria” che ai tempi della Magna Grecia indicava i territori calabresi e lucani che si affacciano sul Mar Ionio e che in greco significa, appunto, “terra del vino”. Rammentiamo come il vino rosso, contiene componenti fenoliche bioattive e potenzialmente protettive per la salute, basta non abusarne.

Calabria, una regione che fatica da anni ad affermarsi nel mercato dell’enologia, sia italiana che estera, e che rimane ancora nel proprio guscio.
A differenza di scelte del passato, alcuni produttori sono andati in controtendenza utilizzando solo vitigni autoctoni come Gaglioppo, Magliocco e il Greco Bianco.
Questo cambio di rotta, insieme all’ottimo livello dei vini dolci, da meditazione, come il Moscato Passito di Saracena sono due indicatori di una crescita qualitativa reale e suffragata, come sottolineato dai curatori della guida Slow Wine 2016, da numeri e non solo ipotesi: oltre il 40% della produzione è “certificata” (doc e/o igt). Naturalmente è necessario sottolineare la straordinaria originalità di alcuni vitigni propri di questa regione come il Gaglioppo, un vitigno antichissimo molto diffuso in Calabria, che presenta interessanti caratteristiche aromatiche tipiche.

I vini rossi hanno sapore asciutto e corposo e sono adatti ad accompagnare i classici piatti rustici della cucina calabrese e le carni stufate. I bianchi hanno sapore delicato e sono indicati con piatti a base di pesce e formaggi freschi. I rosati hanno sapore fragrante e si abbinano a legumi, carni bianche e pesce.

In Calabria la vitivinocoltura ha una storia millenaria e si diffonde ben prima della colonizzazione greca, avvenuta nell’VIII secolo a. C.; oggi le zone maggiormente adibite alla coltivazione della vite sono quelle che sorgono sulle coste, non solo ioniche ma anche del Tirreno. I vitigni più diffusi sono quelli a bacca nera, e in particolare il Gaglioppo, il Magliocco (vitigno autoctono recuperato), il Nerello Mascalese, il Nerello Cappuccio e il Greco Nero. Tra i bianchi, il Greco Bianco, il Trebbiano Toscano, il Montonico e la Guernaccia. Nel cirotano si realizzano vini sempre più genuini grazie al vitigno principale il gaglioppo, Cirò appunto, da tutelare perché identitario. Bianco, dolce e  è il vino Zibibbo prodotto a Pizzo e in poche località della Calabria; l’uva omonima da cui proviene è di origine orientale, a bacca bianca, con grossi acini che si fanno appassire: è un vino non solo da dessert. Nel reggino si produce, con uve passite, un altro vino pregiato utilizzato per accompagnare dolci e torte: il Greco di Bianco. Un buon moscato, inoltre, si trova a Frascineto, Spezzano Albanese e SaracenaNuovi produttori, piccoli artigiani che stanno crescendo. Una Calabria in grande fermento e dalle potenzialità immense, molte delle quali ancora da esprimere.

Cirò Rosso

Ecco il vino storico calabrese che ha vissuto alterne fortune. Il punto più basso si è forse vissuto qualche anno fa, quando è stato cambiato il disciplinare inserendo la possibilità di utilizzare anche vitigni alloctoni per la sua produzione. Come snaturare completamente un prodotto di lunga tradizione. Nonostante questo “sfregio” il panorama del Cirò pare oggi decisamente rivitalizzato. Merito di questa sorta di rinascita del Gaglioppo cirotano certamente il percorso umano e produttivo di un nuovo manipolo di piccoli produttori che molti stimano e che fanno capo a Francesco De Franco della cantina ‘A Vita e Sergio Arcuri dell’omonima cantina e possono fregiarsi della Chiocciola Slow food Calabria. Sentiremo parlare a lungo di queste e altre cantine legate alla piccola produzione e al rispetto della terra..

Sergio Arcuri- Ciro Rosso Cl. Sup. Aris 2011 – Un grande classico, figlio di gaglioppo coltivato ad alberello, un vino che dimostra come il rispetto per la terra possa esaltare il gaglioppo. Azienda familiare quella di Sergio Arcuri  con quasi due secoli di vita. Basse rese, alta qualità, regime biologico.  

‘A Vita Cirò Rosso Cl. Sup. Ris.2010 – Francesco De Franco di ‘A Vita è un vignaiolo di cui si parla in Italia e anche all’estero ma forse poco in Calabria. Francesco e Laura, un calabrese e una friulana, un enologo e un’operatrice culturale, uniti dalla passione per la natura e l’arte.“Per noi essere vignaioli significa agire con responsabilità sul territorio, favorire la biodiversità, rispettare i tempi lenti propri dell’agricoltura”.

Vino Slow su guida SlowWine 2015, 2 Bicchieri Rossi su guida Gambero Rosso 2015 

Zibibbo – La Guida dei Vitigni d’Italia

Il vitigno Zibibbo, è un vitigno aromatico che appartiene alla famiglia dei Moscati. Noto anche come Moscato d’Alessandria, proviene dall’Egitto ed è stato inizialmente diffuso dai Romani nel bacino del Mediterraneo. In seguito al dominio arabo di molte zone del sud d’Europa lo Zibibbo conosce una ben più ampia diffusione. Il nome zibibbo proviene dal termine arabo zibibb, che significa uva secca o appassita, di cui gli arabi fanno grande uso. E’ un’uva conosciuta anche in Francia, dove viene chiamataMuscat d’Alexandrie o Muscat romain e in molti altri Paesi sia europei che del nuovo mondo, fra cui l’Australia, il Cile e il Perù dove viene usata per la produzione del distillato Pisco. In Italia troviamo lo Zibibbo soprattutto inSicilia, dove, coltivato tradizionalmente anche come uva da tavola o da appassimento, dà grandi vini come il Passito di Pantelleria. Il vino che proponiamo proviene dalle Cantine Benvenuto di Pizzo ed è secco. E’ fatto con un’uva che racconta profumi e storie di terra, diversi da quelli che potrebbe raccontare il suo omologo vitigno da cui si fa il passito.
Questo è un punto non secondario: lo Zibibbo di Francavilla è diverso da quello di Pantelleria. – 

Zibibbo di Pizzo Calabro

 tratto da Fondazione Slow Food

Situato su un promontorio a picco sul mar Tirreno, Pizzo Calabro ha origini molto antiche: era un paese dalla florida economia già alla fine del 1300, quando i monaci Basiliani costruirono un nuovo porto avviando un importante commercio di spezie, sete, pesce salato, olio e frutta. I terrazzamenti affacciati sulla costa tirrenica ospitavano coltivazioni di olivo e vite, alternate.
Le uve erano tutte di moscato d’Alessandria, noto anche come zibibbo, un vitigno proveniente dal Nord Africa e coltivato già dall’anno Mille in quest’area così come nelle isole siciliane, dove ha trovato condizioni pedoclimatiche ideali.
Fino alla seconda meta del ‘900 a Pizzo il moscato d’Alessandria era principalmente un’uva da tavola, molto apprezzata per la sua aromaticità e dolcezza e per il colore dorato e leggermente lentigginoso degli acini. Solo piccolissime quantità erano vinificate, per essere poi bevute in famiglia nei momenti conviviali e nelle ricorrenze importanti. Mentre non esisteva la tradizione – molto diffusa in altre aree del meridione – di produrre uva passita. Negli anni Sessanta, con l’introduzione delle varietà californiane specializzate per la produzione di uva da tavola, più produttive e spesso senza semi, la coltivazione a Pizzo è andata in declino e nell’area le viti, poco per volta sono state espiantate.

Stagionalità

Lo zibibbo di Pizzo Calabro si raccoglie a partire dalla seconda decade di settembre

Quattro produttori hanno creato l’associazione “I vignaioli dell’Angitola” e hanno iniziato a recuperare i terrazzamenti di Pizzo e di Francavilla Angitola per riportare sul mercato quest’uva pregiata (oggi nota solo per via della vinificazione fatta a Pantelleria). Quest’opera di recupero riguarda da un lato vigneti di una trentina d’anni e dall’altra nuovi impianti realizzati dai produttori stessi.
Il Presidio nasce quindi valorizzare una tradizione e una coltivazione oramai desueta, recuperando i vecchi terrazzamenti destinati alle viti e all’olivo: una coltivazione promiscua che un tempo caratterizzava tutta la costa. Il progetto si concentra sull’uva da tavola stabilendo regole rigorose, di coltivazione ma anche di raccolta, per garantire l’arrivo sul mercato di un prodotto eccellente.Area di produzione
Area agricola dei comuni di Pizzo Calabro e Francavilla Angitola (Vv)
                                                                                                                                                  

Mpresidiooscato al governo di Saracena (presìdio  Slow food)

Già nel Cinquecento i barili di Moscato di Saracena erano imbarcati a Scalea per essere consegnati alla corte papale. Sulla tavola di papa Pio IV il Moscato di Saracena non mancava mai e Guglielmo Sirleto, il cardinale calabrese Prefetto della Biblioteca Vaticana, ne era particolarmente ghiotto. Anche in tempi più recenti si trovano riferimenti precisi a questo vino in due resoconti del Grand Tour. Lo cita Norman Douglas nel 1915 nel suo libro “Old Calabria” dove scrive “..sorge il prosperoso paese di Saracena, famoso fin dai secoli passati per il suo moscato. Lo si ottiene dall’uva portata dai saraceni da Maskat”. Ma anche George Gissing in “By the Jonian sea” del 1901 ricorda ”.. come cosa in pieno degna dell’antica Sibari un vino bianco, gradevole al palato, chiamato moscato di Saracena”.
Il Moscato di Saracena si produce vinificando uve guarnaccia, malvasia, “adduroca” (termine dialettale che sta per profumata) e moscatello (un vitigno locale che non è mai stato censito: non è né moscato di Alessandria, né moscato di Amburgo, e solo a Saracena la coltivazione raggiunge buoni livelli qualitativi). Le percentuali tra le diverse uve possono variare sensibilmente, ma in genere guarnaccia e malvasia sono prevalenti e viene aggiunta solo una piccola quantità di “adduraca”, un vitigno molto profumato e aromatico. Il moscatello, raccolto al giusto punto di maturazione, è appeso su graticci ombreggiati per 15, 20 giorni, per concentrarne, attraverso l’appassimento, zuccheri e aromi. Gli acini disidratati subiscono successivamente un’attenta selezione manuale (normalmente si tratta di un lavoro femminile), seguita da una delicata pressatura. Dopo la vendemmia, guarnaccia, malvasia e adduraca invece sono pigiate e il mosto ottenuto è sottoposto a bollitura per ottenere una riduzione di circa un terzo del totale: questo procedimento determina un aumento del grado zuccherino e quindi del grado alcolometrico. I due mosti sono assemblati e iniziano un percorso fermentativo naturale, a seconda dei produttori, in botti di legno o in vasche di acciaio. Il risultato è un vino dal lucente color ambra, intensamente profumato: alle note resinose e aromatiche si uniscono aristocratici sentori di fichi secchi, frutta esotica, mandorle e miele. Al palato mantiene eleganza e finezza, discreta persistenza, buon equilibrio e una piacevole nota amarognola. Il moscato di Saracena è pronto per l’imbottigliamento nella primavera successiva alla vendemmia ed esprime al meglio le sue potenzialità entro due anni. (tratto da Presìdi Slow Food).

I vini che presentiamo e proponiamo sono il frutto di ricerche personalmente condotte sul campo. Privilegiando sempre i piccoli vignaioli, per noi artigiani artisti, che lavorando direttamente in azienda hanno saputo trasmettere al vino un’anima, oltre che una qualità eccezionale. Ogni anno arricchiremo la sezione dei vignaioli che, non utilizzando sostanze chimiche di sintesi in vigna e in cantina, producono vini naturali e biologici.

Quel pazzo che si è messo in testa di salvare le nostre “radici”

Dom, 03/04/2016 – 15:22
Il professor Orlando Sculli da 14 anni va in cerca di vitigni autoctoni da salvare. Vitigni che appartengono a un passato assai remoto, all’epoca bizantina, romana e addirittura greca. Finora ne ha recuperati 270, ma la sua ricerca continua. C’è un ricco arsenale da riportare alla luce e Sculli ha bisogno di una mano.

È come se avesse fatto un giro completo attorno all’equatore. Orlando Sculli, professore di lettere in pensione, ha macinato oltre quarantamila chilometri consumando due Panda vecchio modello. Da quattordici anni il prof. Sculli va alla disperata ricerca delle nostre radici. E in questo caso “radici” ha un valore metaforico ma anche letterale.
Come nelle storie più avvincenti, tutto ha inizio per caso. Nel luglio del 2002 Sculli dà alle stampe “I palmenti di Ferruzzano”. Nello stesso mese sulla rivista “Calabria Sconosciuta” viene pubblicato un articolo sugli stessi palmenti. “Per caso – racconta Sculli – il prof. Attilio Scienza, dell’Università Statale di Milano, studioso di fama internazionale dei vitigni e della loro storia, lesse l’articolo e si precipitò a Ferruzzano insieme al dott. Nicodemo Librandi di Cirò. Fui io a condurli sul posto: rimasero meravigliati di fronte al mistero dei palmenti. Alcuni, secondo il prof. Scienza, risalivano al periodo pre-ellenico. Mi chiese, quindi, di accompagnarlo a visitare un vigneto marginale e lo portai a visitare il mio a Ferruzzano dove si trovavano 37 vitigni della zona, 23 peri in estinzione e sorbi, peschi, susini, meli, fichi… Il prof. Scienza di fronte a quella varietà di grappoli in così poco spazio restò trasecolato, anche perché quei vitigni appartenevano probabilmente a un passato assai remoto, all’epoca bizantina, romana e addirittura greca”. Scienza, dopo essersi complimentato con Sculli per la straordinaria opera di recupero e valorizzazione delle risorse, promise che avrebbe aiutato il territorio. “L’interesse del prof. Scienza coincideva con il mio – continua Sculli. – Per volontà del destino avevo incontrato la persona che avrebbe messo in risalto il territorio, vista la sua posizione nel contesto accademico nazionale e internazionale”.
Grazie allo zampino del destino 126 varietà autoctone della provincia di Reggio Calabria, autentiche reliquie, sono state salvate dall’estinzione: la gran parte delle marze fu donata a Scienza dallo stesso Sculli e venne innestata nel campo sperimentale del dott. Librandi, di Cirò.
Ma l’opera di salvataggio delle nostre “radici” non si concluse lì: grazie agli spunti suggeriti dal cattedratico di Milano e all’infaticabile investigatore Sculli, spesso apostrofato come “chiju pacciu chi va cercandu ‘nte vigni”, si è cercato di salvare in raccolte private il numero più alto possibile di vitigni del Mediterraneo antico, presenti nelle numerosissime enclaves, specialmente pre-aspromontane. Ad oggi sono 270 i vitigni salvi, tra biotipi e genotipi. Un ricco arsenale contro l’erosione genetica.
Ma restano da esplorare con più attenzione così da recuperarne le marze, le aree di Melito, Campo Calabro, Bagaladi, Cardeto, Staiti, Africo, Samo, Careri, S. Giovanni di Gerace, Mammola, Grotteria, Bruzzano, Ardore, Canolo, Portigliola, Siderno, Roccella Jonica, Stignano, Riace, Monasterace, Camini, Stilo, Pazzano, Placanica, Palizzi… ma anche l’area del Savuto e quella del Pollino, in provincia di Cosenza; la zona attorno a Squillace e l’area di Tiriolo, in provincia di Catanzaro; numerose aree di Crotone. Si calcola che esplorandole si potrebbero recuperare almeno 500 altri biotipi.
“Sarebbe indispensabile tentare quest’operazione – sostiene Sculli – in quanto in queste aree potrebbero sopravvivere le viti di tutto il Mediterraneo antico e del Medio Oriente”. Le coste della Magna Grecia, infatti, così prepotentemente protese fino al cuore del Mediterraneo, hanno rappresentato sin dalle epoche più remote una sorta di ponte e di punto di contatto tra le diverse civiltà, una circostanza che ha favorito l’arrivo nel Mezzogiorno d’Italia di numerose varietà di vite che si sono incrociate poi con le viti selvatiche autoctone.
Un ricchissimo patrimonio messo in pericolo, all’inizio degli anni ‘50 del ‘900, con l’emigrazione di massa dalla Calabria verso l’Australia, gli Stati Uniti, il Canada e l’Argentina. “Le prime vittime di quell’emigrazione – prosegue Sculli – furono tutte quelle varietà di piante che avevano determinato la conservazione di un modello di civiltà statico ma a misura d’uomo”.
A mettere ulteriormente a rischio la biodiversità di una tradizione millenaria anche i rapidi processi di globalizzazione dei prodotti e dei mercati e la nefanda politica comunitaria, che a partire dagli anni ottanta, dava incentivi per estirpare i vigneti. “Divenne una prassi obbligata – aggiunge Sculli – ricorrere nella costituzione di nuovi vigneti, a vitigni internazionali o a pochi viti calabresi, quali il Magliocco, il Greco Nero, il Greco Bianco, il Mantonico, il Gaglioppo, la Guardavalle, la Greca Bianca. E così, nello spazio di pochi anni, lo scenario della costituzione dei vigneti in Calabria è profondamente mutato”. Oltre ai vitigni, furono spazzati via varietà numerose di ortaggi, furono cancellati campi di peschi, sorbi, giuggioli, ciliegie, numerose varietà di fichi, gelsi, agrumi, albicocchi… Furono i vecchi a impedire il totale naufragio di queste specie e Orlando Sculli sta tentando di riportarle alla luce, una dietro l’altra, scrutando pazientemente in piccole vigne marginali e recuperando al contempo l’identità di un luogo e un mondo intero di saperi orali. “Da sempre sogno di creare un chepos (giardino) delle meraviglie. Lo si potrebbe fare magari attorno alla diga del Lordo, a Siderno, così si potrebbe recuperare l’area e nello stesso tempo salvare millenni di storia”. Oltre ad aver preservato il nostro preziosissimo germoplasma, proveniente da luoghi lontani e portato in Calabria, nel corso dei secoli, da popoli in fuga, Orlando Sculli ha restituito al territorio oltre 750 palmenti, tutti accuratamente schedati, tra l’indifferenza generale. Scavate nella roccia, quelle vasche raccontano la storia di un mondo contadino e pastorale illustrando le tecniche di trasformazione dell’uva dal periodo greco ai giorni nostri.
“Nel territorio delimitato a sud dalla fiumara di Bruzzano e a nord dal Bonamico – ci riferisce Sculli – si trova la massima concentrazioni di palmenti: sono più di 700 gli esemplari rinvenuti. Rimanendo nella Locride abbiamo, poi, 7-8 palmenti resistono a Bova, 1 a Palizzi, 3-4 a Brancaleone, 7-8 a San Luca, 5-6 a Careri-Natile, 1 a Ciminà, 6-7 ad Antonimina, 5-6 a Gerace, 1 a San Giovanni di Gerace, 6-7 a Caulonia, 1 a Camini e poi niente più fino a Santa Caterina dello Ionio dove ce ne sono 22. Tutti questi palmenti sono stati prima ellenici, poi romani e infine bizantini”. La Locride, stando a quanto ci rivela Sculli, possiede quindi il patrimonio di palmenti più ricco del mondo.Ma nonostante siano stati visitati da studiosi stranieri, come Patrick E. McGovern, docente di Antropologia all’università della Pennsylvania e direttore del Museum Applied Science Center for Archaeology della stessa università, da Lin Foxhall esperta di archeologia classica dell’università di Leicester in Inghilterra, da John Robbe, prof. dell’università di Cambridge, esperto in neolitico, da Robert Winter docente di storia dell’arte nel Rhine-Renoir College del North Carolina, dal già citato Attilio Scienza, “mai – dichiara Sculli – la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, ha prestato ascolto ai ripetuti appelli, degnandosi di accennare alla minima iniziativa per la salvaguardia di questi palmenti; nel frattempo almeno cinque sono stati distrutti nel corso di interventi agricoli”.
Un patrimonio immane rischia di essere perduto, un patrimonio di inestimabile valore colturale oltre che culturale. Sculli lancia il suo SOS nella speranza che le istituzioni calabresi vogliano farsi promotrici di questo salvataggio, ricordando che è tanto di moda tra i grandi vinificatori, che propongono i vini ricavati dai vitigni autoctoni, lo slogan: “la storia si beve assieme al vino”.
Altro dato di fatto inconfutabile e da tenere bene a mente è che le cultivar autoctone rappresentano un dolce intrecciarsi di genius loci (spirito del luogo) e genius saeculi (spirito del tempo). Il genius loci lo si trova ovunque, il genius saeculi lo possiamo vantare in pochi, e la Calabria ne ha davvero tanto da irrorare e con cui imperlare le generazioni future.

Autore:
Maria Giovanna Cogliandro

 

Bevete moderatamente, selezionando  vini  di buona qualità  e ricordando che il vino contiene antiossidanti.
 Non temere, scegli il tuo vino e quello che non consumi puoi tranquillamente portarlo via!

 LE BIRRE

Tacito parlava di birra scrivendo che è “un liquido ricavato dall’orzo e dal frumento, fermentato in modo da sembrare vino”. “La birra può essere un grande prodotto. Esattamente come il buon vino.”

“Un Paese è veramente un Paese quando ha una compagnia aerea e una birra. E alla fine è di una birra che si ha più bisogno”.  Frank Zappa.

La birra artigianale è diversa e migliore della birra industriale. Non è pastorizzata, è senza conservanti, né additivi chimici, ma con ingredienti di prima scelta, con un carattere e una identità territoriale precisa.

Le Birre che proporremo, amate e anche regionali poco conosciute, sono realizzate con ricette storiche che hanno fatto conoscere in tutto il mondo i birrifici Italiani. Anche in Calabria la qualità e l’attenzione al prodotto sono in ascesa: agli amanti della birra così come ai semplici curiosi vogliamo far assaggiare le migliori Birre Artigianali, che hanno ottenuto riconoscimenti nazionali. Che sia bionda, rossa o scura, l’importante è gustarla con una tavolata di amici, in un posto rilassante e in cui si ascolta dell’ottima musica. La birra conquista sempre più gli italiani, le birrerie si affermano come luogo culto anche per le nuove generazioni in un perfetto connubio tra pietra e legno.

Sulla birra esistono delle false convinzioni ad esempio che la birra faccia ingrassare. Una bevanda più è alcolica più ingrassa, meno comunque in termini calorici della coca cola, di altre bevande gassate e di un succo di frutta con poca frutta.

Alcune birre le serviamo alla spina; ricordiamo che la spillatura della birra non è un gesto meccanico o insignificante, la schiuma infatti è parte integrante e fondamentale della birra. La compattezza della schiuma è indice di un tenore qualitativo alto.

LA BIRRA QUELLA BUONA, NON E’ PASTORIZZATA NE’ FILTRATA!

Alcune Birre da noi proposte:

Birrifcio ‘A Magara, Trupija, Magarìa (Grande Birra Slow Food)

Birrificio Blandino

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